mercoledì 30 gennaio 2013

Sorella Maria di Campello

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Sorella Maria, al secolo Valeria Pignetti, era nata a Torino nel 1875. Di temperamento allegro e contemplativo sin da bimba, amante della natura e della poesia, era entrata nel 1901 nell’istituto francese delle Francescane missionarie con il nome di Maria Pastorella. Qui si era fatta stimare per l’impegno con cui aveva assolto i diversi incarichi – direzione di opere di accoglienza e di assistenza, anche in ambito ospedaliero - che le erano stati affidati.

Da questa realtà era uscita dopo 18 anni, non senza intenso dolore proprio e delle compagne e con la consolazione di aver ricevuto il consenso di Benedetto XV, alla luce di una nuova vocazione, insieme eremitica e comunitaria, che dopo varie peregrinazioni trovò collocazione ideale nell’eremo di Campello. (Vocazione che lei chiama “violetta” tanto delicata ma potente, infatti Dio la chiama ad un’altra vita fuori dal convento, dalla congregazione e dalla convenzionalità dell’Ordine). Maria, come scrive più volte, non vuole creare un nuovo ordine monastico o una nuova congregazione ma una vita comune, che si realizzi nel silenzio e nella contemplazione, che sperimenti il senso del sacro nell’armonia del quotidiano, che preghi meditando Bibbia e Vangelo e creando liturgie in cui semplicità bellezza intensità si fondano inscindibilmente. (Una delle liturgie era quella di una piccola processione insieme alle sorelle su per il sentiero che lei chiamava “la via di Gerusalemme”).

La volontà di non bloccare vitalità e carisma originario si esprime anche attraverso la scelta, di non dettare una regola di vita, ma di predisporre «consuetudini disciplinate», un insieme di gesti, atteggiamenti, riti parzialmente rielaborati e riformulati nel corso del tempo. “Non siamo né monache né suore. Non abbiamo una regola speciale ma seguiamo con semplicità e amore il pensiero di S. Francesco. Seppur non siamo monache nel senso specifico della parola, lo siamo nel senso essenziale. Non desideriamo né protezione né appoggi né privilegi. Siamo grate a chi ci porge la mano fraterna”: sono parole del Pro manuscripto “Una vita fraterna” dell’Eremo e da esse possiamo cogliere il profumo e lo spirito di un’esperienza femminile leggera, alla ricerca dell’essenziale.


Così ha inizio una vicenda particolare di comunità modellata sulla radicalità evangelica e francescana, un piccolo cenacolo - non raccoglierà mai un numero superiore a 15 sorelle nella convivenza comune - contrassegnato dall’apertura e l’accoglienza senza preclusioni nei confronti di qualsiasi realtà autenticamente religiosa e umana.

Si hanno contatti e spesso si ospitano anglicani e valdesi, calvinisti, zwingliani che provengono da vari paesi europei, dagli Stati Uniti, dall’India; ci si apre al dialogo con persone di diverse fedi.
Il suo intento era dare vita a una piccola koinonìa, una comunità esemplata sull’esperienza delle realtà cristiane delle origini, che vivesse la fraternità narrata negli Atti degli Apostoli e insieme la purezza e la povertà del primo francescanesimo.  Una piccola Chiesa, con il linguaggio dell’ecclesiologia conciliare potremmo dire una «Chiesa particolare», che esprimesse nella sua realtà tutta quanta la pienezza e la ricchezza della Chiesa «cattolica, cioè «universale».  Sorella Maria stupì, affascinò o scandalizzò molti.


Così quel vecchio convento francescano di Campello, già di Sant’Antonio Abate ma da lei ribattezzato ‘Rifugio San Francesco’, dove già avevano soggiornato o vissuto dei santi (S. Francesco di Paola, S.Giovanni da Capistrano, San Bernardino da Siena), abbandonato da tempo e ormai in rovina ma tenuto in piedi quasi da una predestinazione, ha visto arrivare un giorno una piccola ‘allodola’ in cerca d’una zolla per nidificare. Dietro di lei un piccolo stormo di “allodole” gentili, come lei amava dire di sé e del suo piccolo gruppo di compagne.


Da quella solitudine Sr. Maria, quasi senza mai muoversi da Campello, ha saputo mantenere e continuare a tessere una rete che ha abbracciato il mondo.
I suoi corrispondenti, spesso tenacemente cercati e mantenuti con fedele costanza, andavano dall’Europa all’Africa, dall’America all’Asia, e questi rapporti erano sempre con grandi spiriti: il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Albert Schweitzer, Paul Sabatier ecc. E poi gli italiani: Ernesto Bonaiuti (scomunicato), Primo Mazzolari, Giovanni Vannucci, Davide Maria Turoldo, Aldo Capitini e si potrebbe continuare …


Sorella Maria è una figura ricca, complessa e affascinante, la sua disarmante umiltà e il genio mistico che la caratterizza le hanno consentito di anticipare molte delle luminose intuizioni che caratterizzeranno il pontificato di Giovanni XXIII. Predicava una «fraternità riverente» tra cattolici e i fratelli ‘diversamente cristiani’, i ‘fratelli separati’ del Papa Buono. Ma lei preferiva chiamarli «fratelli nel Signore», con i quali auspicava una «diversità riconciliata» che si accontenta di ciò che unisce, lasciando ai tecnici della teologia le dispute su ciò che divide.


La piccola famiglia dell’eremo diventa, nell’intenzione e nello spirito di Sorella Maria una specie di icona anticipatrice di quello che dovrebbe, e che dovrà essere un giorno, la Chiesa: una «famiglia sconfinante», cioè una famiglia che tiene e sente sempre presenti anche quelli che non sono in quel momento in casa, e che pure sono e restano parte della famiglia mistica dell’eremo. Ciò le permette di lanciare un ponte per il dialogo anche con il pensiero ‘laico’ con il quale auspica un rapporto di «simpatia adulta», fatta di spirito di tolleranza, di rispetto, di collaborazione.
Una Chiesa dunque in cui trovi spazio ogni «credente sincero», anche non cristiano,; una speciale unione con «i fratelli che cercano Cristo» e la convinzione che «tanto più siamo cristiani, quanto più siamo uniti»; l’amore filiale per la Chiesa Madre, la Chiesa di Roma, a cui si riconosce «l’elemento sostanziale e assoluto»


Una chiave importante per penetrare più a fondo nell’animo della sorella è una famosa espressione di Ignazio di Antiochia da lei prediletta: «La Chiesa romana presiede all’agape […] che vuol dire: presiede all’agape, all’amore? Amare di più»  (Sorella Maria parla., fascicolo Vivere la fede cristiana, p. 1). La Chiesa romana è ignazianamente, per lei, quella che, esercitando una presidenza di amore, deve saperla esprimere nell’umiltà e nell’accoglienza di tutti  i suoi figli che non sono solo i cattolici ma tutti «i sinceri cercatori di Cristo».
Parole che non possono essere gradite, e non lo furono, da chi identifichi l’adesione al cristianesimo come la accettazione di formulazioni dogmatiche, da chi riconosca nella Chiesa cattolica la sola istituzione che ha in sé l’esclusiva della salvezza.  

Parole che indicano come la distinzione tra Chiesa e Regno di Dio, successivamente patrimonio dell’ecclesiologia conciliare, sia già tutta presente nelle parole dell’eremita, che scrive ancora: «Noi non dobbiamo restringerci in un ambito: apparteniamo sì, con venerazione, alla Chiesa romana, ma tenendoci al largo per essere con tutti… Andare al largo serve per diventare lungimiranti, a compatire, a crescere nel distacco, nell’attesa del Regno»

Preghiera di sorella Maria

Donaci la libertà
degli uccelli del cielo,
la gratitudine
dei fiori del campo.
Donaci la pace.
Il resto sarà dato in più.

 

 

 

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